di Lino Lavorgna  

Incipit
«Restate fermi, restate fermi, figli di Europa, fratelli miei! Vedo nei vostri occhi la stessa paura che potrebbe afferrare il mio cuore. Ci sarà un giorno in cui il coraggio degli uomini cederà, in cui abbandoneremo gli amici e spezzeremo ogni legame di fratellanza, ma non è questo il giorno!

Ci sarà l’ora dei lupi e degli scudi frantumati quando l’era degli uomini arriverà al crollo, ma non è questo il giorno! Quest’oggi combattiamo! Per tutto ciò che ritenete caro su questa bella Terra vi invito a resistere, Uomini dell’Ovest! Per Zelensky!»

(Testo mutuato dall’appello di Aragorn prima della battaglia all’esterno del nero cancello, contro i mostri di Sauron)

Svegliati Europa!

Solo qualche giorno fa, da queste colonne, è partito l’appello a non perdere tempo nel commentare lo stupidario che traspare dalla follia al potere, contrastandola con l’ironia e facendo chiaramente trasparire la superiorità intellettuale, culturale, etica e morale di chi ad essa si contrappone.

Ascoltiamo anche l’esortazione di Bachofen, che vede nel simbolo un elemento più importante delle parole. Nell’incipit l’elemento simbolico rappresentato dall’eterna lotta del bene contro il male serve da prodromo per l’appello a colorare di giallo e blu l’Europa in occasione del terzo anniversario dell’ignominiosa invasione dell’Ucraìna (con l’accento sulla i, mi raccomando).

Facciamo capire a Zelensky che i veri “europei”, al di là dei tentennamenti di chi si barcamena tra chiacchiere senza costrutto e mille timori nelle stanze del potere, sono con lui senza “se” e senza “ma”. Non perdiamo tempo, pertanto, a commentare l’indecente spettacolo che tre pseudo comici, ancorché con grandi poteri, hanno messo in scena a Washington durante la convention dei conservatori, con motoseghe, saluti nazisti, frasi ingiuriose nei confronti di noi europei e di quel gigante che si è dimostrato il presidente dell’Ucraina, per divertire un uditorio di cerebrolesi.

Non ne vale proprio la pena. De minimis non curat praetor! Oggi, pertanto, parliamo della nostra bella Europa, per riconoscerci in essa e da essa trarre la forza per emulare quel pugno di uomini idealmente raffigurato da Tolkien per combattere i mostri che ci tormentano nei sogni e, purtroppo, talvolta anche nella vita reale.

L’Europa sarà pure una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni, tutte culminanti in -ismo, ma resta pur sempre la cosa più bella che esiste su questo Pianeta.

Noi siamo europei. E quindi siamo quanto di meglio esista su questo Pianeta. Non dimentichiamolo mai e rendiamo omaggio alle nostre radici, esaltando chi da sempre ha sognato e lottato per un’Europa veramente unita. Per gli Stati Uniti d’Europa.

Alle radici del mito. Gli archetipi della civiltà europea.

Il primo documento scritto in cui compare il termine Europa è il terzo dei trentatré inni omerici, dedicato ad Apollo, risalente all’800 a.C. Parlando di un tempio da edificare a Delo, il Dio del sole e di tutte le arti annuncia: «Qui ho deciso di costruire un tempio glorioso, un oracolo per gli uomini, e qui porteranno offerte pubbliche coloro i quali vivono nel ricco Peloponneso, coloro che vivono in Europa».

Europa è anche il nome della figlia di Agenore, re di Tiro, sedotta da Zeus, che la raggiunse sulla spiaggia della città fenicia dopo aver assunto le sembianze di un toro. L’episodio è narrato da secoli come “ratto di Europa”, definizione da smantellare senza indugi, traendo spunto dalla più realistica “visione” che traspare dalle opere di tantissimi grandi pittori. In nessuna di esse  si notano segni di violenza; i volti di Europa e delle ancelle appaiono sereni e sorridenti.

Nessun ratto, quindi, ma solo un cortese invito a montare in groppa, entusiasticamente accettato dalla principessa. Quale donna, del resto, farebbe storie sentendosi corteggiata da un Dio! E’ proprio insopportabile, inoltre, il solo associare, anche leggendariamente, il nome “Europa” a uno stupro. Furono proprio coloro che veneravano Zeus, del resto, a generare quella cultura senza della quale non si sarebbe mai formata la “nazione europea” così come oggi si presenta, anche nelle sue contraddizioni.

Civismo, individualismo, cosmopolitismo, culto della conoscenza, democrazia, da elementi fondamentali della civiltà elladica ed ellenica sono stati assunti gradualmente quali archetipi della civiltà europea. Già Aristotele iniziò a differenziare gli europei dagli asiatici, sia pure con una chiave di lettura pretenziosa e superficiale. (I più curiosi possono sfogliare il libro settimo di “Politica”).

Con l’impero romano, tra i popoli europei assoggettati, prende forma il diritto scritto come limite all’arbitrio dell’uomo, da molti storici visto come elemento di coesione: «Legum servi sumus ut liberi esse possimus», pontificava Cicerone, non prevedendo, però, la nascita di coloro che delle leggi avrebbero fatto strame proprio per negare la libertà agli altri1. Dante, nel “De Monarchia”, pur nella palese forzatura relativa alla presunta “volontà divina”, con la quale aveva giustificato anche l’espansione romana, riserva all’Europa il compito di formare un impero universale destinato “ad una missione comune di ordine, di civiltà e di armonia”. Peccato che questo nobile proposito sia stato costantemente smentito negli otto secoli successivi con le sanguinose lotte intestine e la netta contrapposizione ideologica e religiosa.

Con l’avvento di Carlo Magno si forma una nuova idea di Europa, anche se ancora oggi persiste il dilemma tra chi ritiene che l’impero carolingio fosse un’evoluzione dell’antico impero romano e chi invece lo codifica come prodromo dell’Europa moderna. Di sicuro, proprio con la successione carolingia, inizia quella spartizione dell’Europa alla base di tante sciagure continentali.

Nascita e crisi dell’idea europea.

Agli albori del quindicesimo secolo, Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa Pio II, conia il termine “Europeo”. Nel sedicesimo secolo, però, “l’idea Europa” registra un sensibile rallentamento. Profonde lotte intestine generano gli stati nazionali; il decadimento della morale “romana” scandalizza i popoli del Centro-Nord e anche i cristiani si dividono in cattolici e protestanti. La crisi è profonda, nonostante il consolidarsi dell’Umanesimo, del Rinascimento e delle correnti di pensiero letterario, filosofico e artistico sorte nel secolo precedente.

Tra i più illustri esponenti di questo periodo vi è Erasmo da Rotterdam, che crede fortemente nell’Europa unita, ma solo sotto l’egida del cristianesimo: «Il mondo intero è una patria comune (dove per il mondo s’intende l’Europa cristiana), non gli inglesi, né tedeschi, né francesi; perché ci dividono questi stolti nomi, quando il nome di Cristo ci ricongiunge?» Il suo pensiero non era di facile assimilazione e pertanto nessuno gli diede ascolto, lasciandolo nella triste condizione di “incompreso”.

Pur restando cattolico, infatti, condivideva molti punti della riforma protestante, della quale però non accettava il punto cruciale, relativo alla negazione dell’esistenza del libero arbitrio. Ciò lo rendeva inviso sia ai cattolici, che lo consideravano luterano, sia ai luterani, che non tolleravano la sua volontà di mantenersi neutrale per conferire un impulso più autorevole alla riforma della religione, scegliendo il meglio delle due parti.

Quando le posizioni di qualcuno sono di difficile comprensione si fa più presto a cancellarle del tutto e così avvenne con Erasmo, i cui libri furono dati alle fiamme a Milano, nel 1543, insieme con quelli di Lutero.  Un altro eminente umanista e convinto europeista, lo spagnolo Juan Luis Vives,  nel 1529 scrive il “De concordia” ed esorta i popoli europei a trovare una più efficace coesione per respingere la minaccia ottomana. In Italia si leva forte il grido di Niccolò Machiavelli e Tommaso Campanella a favore della piena restaurazione dell’autorità papale.

Tra il XVI e il XVII secolo l’Europa precipitò in un periodo ancora più buio dei precedenti, caratterizzato da una lunga guerra che, dopo l’iniziale contrasto tra stati protestanti e cattolici, vide coinvolte quasi tutte le grandi potenze e fece riemergere la rivalità franco-asburgica per l’egemonia continentale.  Nel 1568 iniziò la guerra tra le sette province unite, che oggi costituiscono il territorio dei Paesi Bassi, e la Spagna; nel 1618, poi, il conflitto si estese al resto d’Europa (guerra dei trenta anni).

La pace di Vestfalia, nel 1648,  pose fine a ottanta anni di macelleria continentale, segnati da non meno di  dodici milioni di vittime, tra militari e civili. Fu proprio in quel periodo, tuttavia, che il duca di Sully, ex primo ministro di Enrico IV di Francia, redige il “Gran Disegno” e prospetta una “Confederazione di Stati” composta da cinque monarchie elettive (Sacro Impero Romano Germanico, Stati Pontifici, Polonia, Ungheria, Boemia) e quattro repubbliche sovrane (Venezia, Italia, Svizzera, Belgio). La confederazione sarebbe stata retta da un “Consiglio d’Europa” e da un “Consiglio Generale”2.

L’inglese William Penn inventa un lasciapassare in grado di far viaggiare le persone attraverso gli stati d’Europa senza problemi, anticipando di molti secoli il futuro passaporto europeo. Gli eventi dal diciottesimo secolo in avanti hanno fortemente condizionato la società contemporanea e di fatto costituiscono la “nostra storia”, per la quale val la pena di citare la dichiarazione di un membro dell’Assemblea Costituente francese nella seduta del 21 aprile 1849: «Giorno verrà in cui Francia, Italia, Inghilterra, Germania o non importa quale altra Nazione del continente, senza perdere le loro qualità peculiari e la loro gloriosa individualità, si fonderanno strettamente in una unità superiore e costituiranno la fraternità europea.

Giorno verrà in cui le pallottole e le bombe saranno rimpiazzate dai voti, dovuti al suffragio universale dei popoli. Un Senato sovrano sarà per l’Europa quello che il Parlamento è per l’Inghilterra, la Dieta per la Germania, quello che l’Assemblea Legislativa è per la Francia. L’edificio del futuro si chiamerà un giorno Stati Uniti d’Europa. Giorno verrà in cui si vedranno questi due gruppi immensi, gli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro tendersi la mano attraverso i mari».

Il suo nome era Victor Hugo. Poco meno di un secolo dopo, nelle fredde celle di Ventotene, toccherà ad Altiero Spinelli riprendere quei concetti ed esaltarli nel famoso “Manifesto per un’Europa libera e unita”.

La necessità di superare i contrasti.

Questo excursus, necessariamente parziale, che sintetizza il “sogno europeo” sin dai suoi albori, serve soprattutto a evidenziare gli elementi fondamentali per la costituzione di una federazione di stati sovrani configurabile come “nazione”.

La definizione corrente, infatti, che vede nella nazione una comunità di individui che condividono alcune caratteristiche comuni come la lingua, il luogo geografico, la storia, le tradizioni, la cultura, l’etnia ed eventualmente un governo, non solo non è sufficiente a caratterizzare in modo compiuto il concetto di “Europa Nazione”, ma addirittura risulta ostativa: la lingua comune sarà un problema di non facile soluzione; la storia non ha ancora sanato vecchie ferite; all’interno di molti stati sono ancora forti le contrapposizioni tra entità regionali che aspirano all’indipendenza e governi centrali.

La strada, inutile nasconderlo, è in salita. Una salita resa ancora più impervia da ciò che più chiaramente emerge in quanto innanzi scritto: il forte impulso religioso inferto ai passati progetti federativi. Già nell’attuale costituzione europea, entrata in vigore il 1° dicembre 2009, è stato escluso il riferimento alle radici cristiane dell’Europa, privilegiando un laicismo ritenuto più in linea con il fluire dei tempi.

Bisogna prestare molta attenzione a questo aspetto, che a suo tempo generò un vero conflitto tra la Chiesa e i Governi europei, con dichiarazioni infuocate e bellicose da parte del Vaticano. Il laicismo insito nella carta costituzionale, invece, lungi dal voler limitare i diritti della Chiesa, tende a salvaguardare quelli di tutti, ossia anche dei non credenti e solo in tal guisa va concepito.

Ogni altro riferimento, in particolare alla luce della realtà attuale, si configurerebbe come una nuova “guerra di religione” e ciò va evitato assolutamente. Bisogna promuovere il desiderio di stare insieme per essere “più forti” in tutto, preservando le peculiarità culturali di ciascuno. “Uniti nella diversità”, l’attuale motto dell’Unione Europea, è quanto mai azzeccato.

Dimostriamo da subito, quindi, che finalmente abbiamo capito la lezione, prendendoci idealmente per mano da Roma a Berlino, da Praga a Dublino, da Parigi a Londra (sì, a Londra, perché siamo più forti della realtà contingente), da Bruxelles a Kyiv e gridiamo con forza, facendo risuonare l’urlo in ogni angolo del Pianeta: “Europa nazione sarà”.

Il 24 febbraio 2025 scriviamola noi una bella pagina di storia, sventolando dappertutto, insieme con la bandiera europea, quella bandiera gialla e blu all’insegna della quale, da tre anni, tanti giovani si sono immolati, per difendere anche la nostra libertà. Facciamo capire ai folli al potere che prima o poi sorgerà il sole su un continente che riscalderà i cuori e sarà tutore di pace per il mondo intero: gli Stati Uniti d’Europa. Sarebbe davvero bellissimo se ciò accadesse prima e non poi e il primo presidente si chiamasse Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’ky. Viva l’Europa e slava Ukraïni.

Note:

  1. Per amor di verità va precisato che non si dovette aspettare a lungo prima che il suo monito iniziasse a essere vilipeso. Il termine “assoggettato”, inoltre, stride fortemente se associato a “coesione”, che invece indica il legame profondo da cui deriva univocità di sentimenti e di atti. Non ho mai mancato di far emergere, in passato, le profonde contraddizioni insite nella storiografia ufficiale, fortemente apologetica nei confronti dell’epopea romana. Ma questa è un’altra storia.
  2. Massimiliano di Béthune, duca di Sully, già potente ministro delle finanze, alla morte di Re Enrico IV di Borbone, nel 1610, fu nominato membro del Consiglio di reggenza. Ben presto, però, entrò in contrasto con la vedova del sovrano, Maria de’ Medici, la cui politica estera, del tutto opposta a quella del defunto marito (la cui morte molti autorevoli storici – e anche il modesto autore di questo articolo – imputano proprio a lei), fu improntata al riavvicinamento con la Spagna, che favorì addirittura con due matrimoni: il figlio Luigi con l’infanta Anna e la figlia Elisabetta con l’infante Filippo, che divenne re di Spagna nel 1621. Costretto alle dimissioni, il duca si ritirò nel suo stupendo Hôtel de Sully, non distante dalla Piazza della Bastiglia, ed ivi redasse il progetto federativo, conferendone però la paternità a Enrico IV, non si sa se dicendo la verità o mentendo per rendere più esaltante la figura di un sovrano che, evidentemente, amava molto. Per conferire maggiore peso all’attribuzione aggiunse che Enrico IV aveva elaborato il progetto grazie a un’idea della regina Elisabetta d’Inghilterra, da lui incontrata nel 1601.